Qubit o bit quantistico |
Io non so giocare a scacchi. Conosco le regole, ma se dovessi sfidare un
ragazzino, mediamente allenato, finirei col soccombere in poche mosse. Insomma
farei mosse avventate, per non dire assurde, perché ignoro i principi
fondamentali del gioco, ben diversi dalle pure e semplici regole. Questi
principi sono proprietà collettive ed emergenti, le quali non risultano
evidenti studiando solo le regole, ma che nascono e si concretizzano dalle
interazioni fra i pezzi disposti sulla scacchiera. Ebbene l’attuale concezione
della meccanica quantistica è simile
alla mia, come giocatore di scacchi. I fisici ne conoscono le regole da più di
80 anni, apprendendo anche qualche mossa intelligente da utilizzare in particolari
situazioni, ma stanno ancora imparando i “trucchi” necessari per padroneggiare
con abilità una partita completa.
Scoprire questi principi, queste mosse mirate, è l’obiettivo dell’informatica quantistica, un campo
fondamentale che si sta spalancando in risposta ad un nuovo modo di concepire
la realtà. Molte ricerche in questa emergente disciplina sono rivolte alle
applicazioni tecnologiche: ci sono gruppi di ricercatori che “teletrasportano” stati quantici da un luogo all’altro,
fisici che adoperano stati quantici per creare chiavi crittografiche, informatici e matematici che escogitano algoritmi e linguaggi di programmazione per futuri computer quantistici, molto più veloci dei più veloci computer
convenzionali.
Queste applicazioni sono affascinanti e, oltremodo, auspicabili, ma sono
solo la ricaduta tecnologica di ricerche teoriche che affrontano questioni
scientifiche nuove e profonde. Il ruolo di scoperte quali il teletrasporto quantistico si può
paragonare a quello delle macchine a vapore e di altri dispositivi che
spronarono lo sviluppo della termodinamica
dalla fine del Settecento e per tutto il periodo della rivoluzione industriale. Lo studio di questa branca della fisica
era incentivato e alimentato da fondamentali questioni sulle relazioni che
intercorrono fra energia, calore e temperatura, sulle trasformazioni di queste grandezze nei processi fisici e sul ruolo chiave
dell’entropia.
In modo simile, i ricercatori, che si occupano di informatica quantistica,
stanno studiando le relazioni tra unità d’informazione classiche e
quantistiche, l’originalità con cui si possono elaborare e analizzare le
informazioni quantistiche e la non trascurabile caratteristica degli oggetti
quantistici chiamata correlazione non
locale o entanglement, la quale implicherebbe
peculiari connessioni fra oggetti (quantistici) differenti.
È sbagliato pensare alla correlazione non locale come ad una proprietà
assoluta, secondo cui le particelle o sono correlate o non lo sono.
L’informatica quantistica ha invece mostrato che la correlazione è una proprietà fisica quantificabile, come
l’energia, che permette di elaborare informazioni: alcuni sistemi quantistici sono poco correlati, altri mediamente e altri
ancora molto. Quanto più è disponibile correlazione, tanto più un sistema è
adatto a elaborare informazioni quantistiche. Inoltre i fisici stanno
sviluppando potenti leggi quantitative riguardanti l’entanglement, analoghe ai
principi della termodinamica che governano i processi energetici, in grado di
fornire una serie di capisaldi di alto livello per comprenderne il
comportamento e descrivere come usarla per elaborare informazioni.
Numerosi studi sulla complessità si concentrano su sistemi, come la meteorologia, pertinenti più alla fisica classica che a quella
quantistica. È ovvio, in quanto i sistemi complessi sono di solito macroscopici
e formati da molte parti, come, d’altronde, molti sistemi perdono la loro
natura quantistica con l’aumentare delle dimensioni. La transizione dallo stato
quantistico a quello classico avviene perché i “grandi” sistemi quantistici
interagiscono fortemente con l’ambiente circostante, producendo un fenomeno di decoerenza che distrugge le proprietà
quantistiche del sistema stesso: classico esempio di decoerenza quantistica è
il paradosso del gatto di Schroedinger.
In teoria il gatto, chiuso in una scatola, si troverebbe in un bizzarro stato
quantico, metà vivo e metà morto: non ha senso descriverlo come l’uno o
l’altro. In un esperimento reale, il gatto interagisce con la scatola
scambiando luce, calore e suono e la scatola, allo stesso modo, interagisce con
il resto dell’ambiente. In un intervallo temporale infinitesimo questi processi
annientano il delicato stato quantico all’interno della scatola e lo
sostituiscono con stati descrivibili, con buona approssimazione, secondo le
leggi della fisica classica. Il gatto all’interno è indubbiamente vivo, oppure
purtroppo morto, e non si trova in alcun modo in una misteriosa combinazione
quantica dei due stati. Raccomandazione: per l’esperimento reale usate gli
scarafaggi, non i gatti!
La chiave per osservare comportamenti quantistici
in un sistema complesso consiste nell’isolare con estrema accuratezza il
sistema, impedendo la decoerenza e preservando i “fragili” stati quantici.
L’isolamento è relativamente semplice quando si ha a che fare con sistemi
piccoli, come atomi intrappolati magneticamente e sospesi nel vuoto, ma molto
difficile con sistemi meno microscopici. La scoperta di fenomeni come la superconduttività, cioè il passaggio di
corrente elettrica in un conduttore che non oppone resistenza, è un esempio di
come i fisici abbiano ottenuto sistemi quantici ben isolati, dimostrando che le
“semplici” regole della meccanica quantistica possono dare origine a
comportamenti complessi.
Per comprendere i principi che agiscono nei rari
casi in cui complessità e meccanica quantistica interagiscono, partiamo dal
problema fondamentale dell’informatica in generale, di quella quantistica in
particolare, che possiamo enunciare in questo modo: “Qual è la minima quantità
di risorsa fisica che ci necessita per eseguire un compito assegnato in
conformità a un criterio di successo ben delineato?”. Il problema fu risolto
nel 1948 dal matematico americano Claude Elwood Shannon, che quantificò
il contenuto d’informazione prodotto da una fonte definendolo come il numero
minimo di bit necessario per
immagazzinare l’output della fonte stessa. L’espressione matematica del
contenuto d’informazione è oggi nota come entropia
di Shannon. Questo concetto gioca un ruolo centrale nel calcolo di quanta
informazione possa essere trasmessa in modo efficiente attraverso un canale di
comunicazione disturbato da rumore
stocastico e, persino, nel valutare strategie nel gioco d’azzardo o nel mercato
azionario. Una peculiarità dell’informatica è che le questioni concernenti
processi elementari stimolano e indirizzano approfondimenti su concetti
unificanti processi più complessi.
Nell’informatica quantistica le risorse fisiche
includono ora stati di sovrapposizione,
i processi possono chiamare in causa misteriosi legami quantistici (correlazione non locale) fra oggetti lontani. Nel
contempo i criteri di successo diventano più evanescenti rispetto al caso
classico, perché per estrarre il risultato di un compito quantistico di
elaborazione d’informazione dobbiamo condurre misurazioni sul sistema e questa
procedura inevitabilmente lo modifica distruggendo gli stati di
sovrapposizione.
L’informazione quantistica generalizza le risorse
fondamentali dell’informatica classica, passando dal bit al qubit, o bit quantistico. Proprio come
i bit derivano dai principi della fisica classica, i qubit si originano da
quelli della meccanica quantistica: i primi possono essere rappresentati da
regioni magnetiche su dischi o tensioni elettriche in seno a un circuito, i secondi
dallo spin di un elettrone o dallo stato di polarizzazione di un fotone.
Però, mentre un bit è descritto solamente da due
stati, 0 o 1, acceso o spento, true (vero) o false (falso), un qubit è
descritto dalle infinite sovrapposizioni quantistiche degli stati 0 e 1. Essi
corrispondono a punti sulla superficie di una sfera, con lo 0 e l’1 posti
rispettivamente nei due poli: il continuo di stati fra questi due estremi è
alla base di molte proprietà dell’informatica quantistica. Un qubit sembra
possa contenere una quantità infinita
d’informazione, perché le sue coordinate teoricamente possono codificare
una sequenza infinita di cifre. Ma così non è: l’informazione in un qubit deve
essere estratta tramite una misurazione e questo processo, come ho precisato
poco fa, distrugge gli stati di sovrapposizione presentando come risultato
l’ordinario bit classico: 0 oppure 1, la probabilità
di ciascun risultato dipendendo dalla “latitudine” del qubit. Questo risultato
venne dimostrato per la prima volta dal matematico russo Aleksandr Holevo: è come se il qubit contenesse informazioni
nascoste che possiamo manipolare, ma alle quali non possiamo accedere.
I singoli qubit sono risorse fisiche indubbiamente
interessanti, ma i comportamenti più affascinanti si possono “ammirare” quando
ne interagiscono molti, come nel caso della correlazione non locale.
Schroedinger era così impressionato dalla
correlazione che la elevò al rango di vero e unico tratto distintivo della
nuova fisica. I componenti di un gruppo di oggetti correlati non possiedono
stati quantici propri, solo il gruppo nel suo insieme ha uno stato definito.
Questo fenomeno è ancora più peculiare della sovrapposizione di stati di una
singola particella; essa, infatti, ha uno stato quantico definito, anche se dovuto
alla sovrapposizione di diversi stati classici.
Gli oggetti correlati si comportano come se
fossero collegati l’uno all’altro indipendentemente dalla distanza che li
separa. Qualsiasi interazione con un oggetto, una misurazione per esempio, si
ripercuote simultaneamente su tutto ciò che gli è correlato. Bisogna però non
cadere nell’errore di ritenere la correlazione un escamotage per inviare segnali superluminali, violando la relatività speciale, perché la natura
probabilistica della meccanica quantistica impedisce siffatti tentativi.
All’inizio degli anni novanta del secolo scorso,
lo spunto che la correlazione ricadesse al di fuori della fisica classica
spinse alcuni ricercatori a domandarsi se non si potesse usare come principale
strumento per elaborare informazione molto più rapidamente, in modo più sicuro
e scevra di errori rispetto agli standard classici di allora. La risposta non
tardò ad arrivare e fu affermativa. Nel 1991 iniziò il fisico polacco,
naturalizzato inglese, Artur Ekert che
mostrò come utilizzare la correlazione non locale per distribuire chiavi crittografiche non violabili.
Nel 1992 i fisici americani Charles
Henry Bennett e Stephen Wiesner dimostrarono
che la correlazione può facilitare il trasferimento d’informazioni classiche da
un luogo all’altro. Infatti, nel 1993, un altro gruppo internazionale di
ricerca spiegò come teletrasportare, con la correlazione, uno stato quantico da
un luogo a un altro. Quindi la parola d’ordine, in questo caso, è accorciare o,
meglio ancora, annullare le distanze.
Network quantistici |
Così come i singoli qubit possono essere
rappresentati da molti oggetti fisici differenti, spin elettronici o nucleari,
stati di polarizzazione dei fotoni, anche la correlazione ha proprietà
indipendenti dalla sua natura fisica. Adoperare un sistema fisico o un altro
può essere più conveniente all’atto pratico, ma non ha alcuna importanza dal
punto di vista concettuale: si può realizzare la crittografia quantistica con
coppie di fotoni correlati, con coppie di elettroni o nuclei correlati e, persino,
con fotoni ed elettroni correlati l’uno con l’altro. In linea di principio, se
possedessi dei dadi correlati, allo stesso modo delle particelle quantistiche,
potrei puntare sempre sulla doppia uscita e vincere la posta in gioco, anche se
li lanciassi singolarmente su pianeti diversi o galassie lontane anni-luce e in
istanti differenti.
L’indipendenza della rappresentazione mette in
luce una stimolante analogia tra correlazione ed energia. Quest’ultima
obbedisce ai principi della termodinamica
indipendentemente dal fatto che si tratti di energia chimica, nucleare,
elettrica o di qualsiasi altra forma. È possibile, perciò, sviluppare una
teoria generale della correlazione su linee simili ai principi della
termodinamica?
Questa speranza fu alimentata nella seconda metà
degli anni novanta, quando si dimostrò come forme diverse di correlazione
fossero qualitativamente equipollenti:
la correlazione di uno stato può essere trasferita ad un altro, in modo simile
all’energia elettrica che fluisce da un caricabatterie a una batteria.
Studiando queste relazioni, alcuni ricercatori hanno introdotto strumenti
matematici per misurare quantitativamente la correlazione.
La strategia migliore è analoga alla misurazione
di una massa con una bilancia. La massa di un oggetto è definita dalla quantità
di copie di una massa standard, presa come unità di misura, che occorre per
equilibrarla su una bilancia. In corrispondenza l’informatica quantistica fa
uso di una “bilancia di correlazione” teorica per confrontare la correlazione
tra due differenti stati quantici: la quantità di correlazione in uno stato è
definita dal numero di copie di una certa unità standard di correlazione
necessario per bilanciarla.
Se due qubit sono correlati, abbiamo visto che non
possiedono più stati quantici propri. È invece definita una relazione tra qubit; per esempio, in un
tipo di coppia correlata, i qubit danno risultati opposti quando sono misurati.
Se uno dà 0, l’altro restituisce 1, e viceversa. Una coppia totalmente
correlata si dice che possiede un e-bit
di correlazione. Quindi le coppie
correlate in modo incompleto possiedono meno di un e-bit. Ora immaginiamo
che la mia amica Genoveffa ed io condividiamo due coppie parzialmente
correlate; possiamo tentare di “distillare”
la correlazione in una singola coppia. Se otteniamo una coppia totalmente
correlata, allora possiamo essere sicuri che originariamente le nostre coppie
possedevano, sommato, almeno un e-bit di correlazione. Usando la distillazione, e il processo inverso,
la diluizione della correlazione, si
può quindi costruire una bilancia
virtuale per “pesare” la correlazione di vari stati quantici in rapporto
all’e-bit standard.
A questo punto facciamo una breve digressione sul teletrasporto quantistico. Se Genoveffa ed io condividiamo un e-bit, cioè
siamo nella condizione di correlazione massimale, possiamo teletrasportare un
qubit. L’e-bit condiviso sarà “consumato”, bruciato, nel senso che non lo
condivideremo più dopo il teletrasporto. Se io teletrasporto a Genoveffa un
solo componente di una coppia correlata, la correlazione di quella particella
con il suo partner originario viene trasferita alla particella della mia amica.
Visivamente, se correlazione significa stato legato da un immaginario elastico quantistico, dopo il
teletrasporto di uno dei due componenti, l’elastico della particella di
Genoveffa non legherà più il qubit condiviso in precedenza con me, ma il
componente spaiato, acquisendo in questo modo tutte le informazioni concernenti
lo stato quantico della particella teletrasportata: in definitiva ciò che si
sposta dalla parte di Genoveffa è l’informazione
quantistica e non materialmente la particella: la sua particella assume lo
stato quantico teletrasportato. Per esempio se lo stato quantico delle
particelle in gioco è lo spin e
teletrasporto una particella con spin “su”, la particella della mia amica,
originariamente con spin “giù”, avrà, dopo il teletrasporto, spin “su”.
Un’ultima applicazione, la correzione quantistica degli errori, fornisce quella che finora è
la migliore prova dell’utilità dell’informatica quantistica come strumento per
lo studio della realtà oggettiva. Gli stati quantici sono estremamente delicati
e vengono facilmente distrutti da interazioni sporadiche o dal rumore, cosicché
i metodi per combattere questi disturbi sono essenziali.
Il calcolo e le comunicazioni classiche hanno un
variegato repertorio di codici di correzione degli errori che proteggono le
informazioni dal degrado causato dal rumore. Ma come si fa ad elaborare codici
per la correzione quantistica degli errori dal momento che la meccanica
quantistica proibisce di conoscere con certezza lo stato di un oggetto? È lo
stesso ostacolo che si presenta quando vogliamo estrarre da un qubit più di un
bit e che ci impedisce di farlo. Il codice correttivo classico, che prevede di
sostituire un bit con una stringa di
tre bit (0 = 000 e 1 = 111), fallisce miseramente, perché non possiamo
esaminare ogni copia di un qubit e determinare quella da scartare senza
rovinare le altre. Peggio ancora, creare copie identiche non è come bere un
bicchiere d’acqua: la meccanica quantistica proibisce la clonazione di qubit sconosciuti, risultato noto come teorema di no-cloning.
Deprimente situazione per gli scienziati impegnati
nell’assetto della computazione quantistica, finché le idee geniali, elaborate
dal matematico americano Peter Williston
Shor e del fisico inglese Andrew
Martin Steane, non indicarono come effettuare la correzione quantistica
degli errori senza conoscere anticipatamente gli stati dei qubit e senza doverli
clonare. Come accade con il codice classico delle triplette, ogni valore è rappresentato da un set di qubit. Questi
vengono fatti passare attraverso un circuito (l’analogo quantistico delle porte logiche) che corregge l’errore
presente in uno qualunque dei qubit senza effettivamente “leggere” i singoli
stati. È come se si facesse transitare la tripletta “010”, rappresentazione
errata del qubit 0, attraverso un circuito in grado di riconoscere che il qubit
centrale è differente e di invertirlo, il tutto senza determinare l’identità di
ciascuno dei tre qubit.
I codici per la correzione quantistica degli
errori sono un trionfo dell’informatica quantistica. La correzione quantistica
degli errori, verificata sperimentalmente presso i Los Alamos National Laboratory, all’IBM e all’MIT, hanno ispirato
nuove idee come quella di limitare il rumore
quantistico degli orologi atomici
senza intervento umano, ipotizzando un’intrinseca capacità di recupero, da
parte di questi sistemi, contro la decoerenza.
Quindi niente saga di Star Trek o agenti con
licenza di uccidere, ma promettenti sviluppi che ci amplieranno l’orizzonte
sulle capacità di elaborazione delle informazioni del nostro universo.
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