martedì 17 aprile 2012

INFORMATICA QUANTISTICA: DA JAMES BOND AL SIGNOR SPOCK


Qubit o bit quantistico
Io non so giocare a scacchi. Conosco le regole, ma se dovessi sfidare un ragazzino, mediamente allenato, finirei col soccombere in poche mosse. Insomma farei mosse avventate, per non dire assurde, perché ignoro i principi fondamentali del gioco, ben diversi dalle pure e semplici regole. Questi principi sono proprietà collettive ed emergenti, le quali non risultano evidenti studiando solo le regole, ma che nascono e si concretizzano dalle interazioni fra i pezzi disposti sulla scacchiera. Ebbene l’attuale concezione della meccanica quantistica è simile alla mia, come giocatore di scacchi. I fisici ne conoscono le regole da più di 80 anni, apprendendo anche qualche mossa intelligente da utilizzare in particolari situazioni, ma stanno ancora imparando i “trucchi” necessari per padroneggiare con abilità una partita completa.
Scoprire questi principi, queste mosse mirate, è l’obiettivo dell’informatica quantistica, un campo fondamentale che si sta spalancando in risposta ad un nuovo modo di concepire la realtà. Molte ricerche in questa emergente disciplina sono rivolte alle applicazioni tecnologiche: ci sono gruppi di ricercatori che “teletrasportano” stati quantici da un luogo all’altro, fisici che adoperano stati quantici per creare chiavi crittografiche, informatici e matematici che escogitano algoritmi e linguaggi di programmazione per futuri computer quantistici, molto più veloci dei più veloci computer convenzionali.
Queste applicazioni sono affascinanti e, oltremodo, auspicabili, ma sono solo la ricaduta tecnologica di ricerche teoriche che affrontano questioni scientifiche nuove e profonde. Il ruolo di scoperte quali il teletrasporto quantistico si può paragonare a quello delle macchine a vapore e di altri dispositivi che spronarono lo sviluppo della termodinamica dalla fine del Settecento e per tutto il periodo della rivoluzione industriale. Lo studio di questa branca della fisica era incentivato e alimentato da fondamentali questioni sulle relazioni che intercorrono fra energia, calore e temperatura, sulle trasformazioni di queste grandezze nei processi fisici e sul ruolo chiave dell’entropia.
In modo simile, i ricercatori, che si occupano di informatica quantistica, stanno studiando le relazioni tra unità d’informazione classiche e quantistiche, l’originalità con cui si possono elaborare e analizzare le informazioni quantistiche e la non trascurabile caratteristica degli oggetti quantistici chiamata correlazione non locale o entanglement, la quale implicherebbe peculiari connessioni fra oggetti (quantistici) differenti.
È sbagliato pensare alla correlazione non locale come ad una proprietà assoluta, secondo cui le particelle o sono correlate o non lo sono. L’informatica quantistica ha invece mostrato che la correlazione è una proprietà fisica quantificabile, come l’energia, che permette di elaborare informazioni: alcuni sistemi quantistici sono poco correlati, altri mediamente e altri ancora molto. Quanto più è disponibile correlazione, tanto più un sistema è adatto a elaborare informazioni quantistiche. Inoltre i fisici stanno sviluppando potenti leggi quantitative riguardanti l’entanglement, analoghe ai principi della termodinamica che governano i processi energetici, in grado di fornire una serie di capisaldi di alto livello per comprenderne il comportamento e descrivere come usarla per elaborare informazioni.
Numerosi studi sulla complessità si concentrano su sistemi, come la meteorologia, pertinenti più alla fisica classica che a quella quantistica. È ovvio, in quanto i sistemi complessi sono di solito macroscopici e formati da molte parti, come, d’altronde, molti sistemi perdono la loro natura quantistica con l’aumentare delle dimensioni. La transizione dallo stato quantistico a quello classico avviene perché i “grandi” sistemi quantistici interagiscono fortemente con l’ambiente circostante, producendo un fenomeno di decoerenza che distrugge le proprietà quantistiche del sistema stesso: classico esempio di decoerenza quantistica è il paradosso del gatto di Schroedinger. In teoria il gatto, chiuso in una scatola, si troverebbe in un bizzarro stato quantico, metà vivo e metà morto: non ha senso descriverlo come l’uno o l’altro. In un esperimento reale, il gatto interagisce con la scatola scambiando luce, calore e suono e la scatola, allo stesso modo, interagisce con il resto dell’ambiente. In un intervallo temporale infinitesimo questi processi annientano il delicato stato quantico all’interno della scatola e lo sostituiscono con stati descrivibili, con buona approssimazione, secondo le leggi della fisica classica. Il gatto all’interno è indubbiamente vivo, oppure purtroppo morto, e non si trova in alcun modo in una misteriosa combinazione quantica dei due stati. Raccomandazione: per l’esperimento reale usate gli scarafaggi, non i gatti!
La chiave per osservare comportamenti quantistici in un sistema complesso consiste nell’isolare con estrema accuratezza il sistema, impedendo la decoerenza e preservando i “fragili” stati quantici. L’isolamento è relativamente semplice quando si ha a che fare con sistemi piccoli, come atomi intrappolati magneticamente e sospesi nel vuoto, ma molto difficile con sistemi meno microscopici. La scoperta di fenomeni come la superconduttività, cioè il passaggio di corrente elettrica in un conduttore che non oppone resistenza, è un esempio di come i fisici abbiano ottenuto sistemi quantici ben isolati, dimostrando che le “semplici” regole della meccanica quantistica possono dare origine a comportamenti complessi.
Per comprendere i principi che agiscono nei rari casi in cui complessità e meccanica quantistica interagiscono, partiamo dal problema fondamentale dell’informatica in generale, di quella quantistica in particolare, che possiamo enunciare in questo modo: “Qual è la minima quantità di risorsa fisica che ci necessita per eseguire un compito assegnato in conformità a un criterio di successo ben delineato?”. Il problema fu risolto nel 1948 dal matematico americano Claude Elwood Shannon, che quantificò il contenuto d’informazione prodotto da una fonte definendolo come il numero minimo di bit necessario per immagazzinare l’output della fonte stessa. L’espressione matematica del contenuto d’informazione è oggi nota come entropia di Shannon. Questo concetto gioca un ruolo centrale nel calcolo di quanta informazione possa essere trasmessa in modo efficiente attraverso un canale di comunicazione disturbato da rumore stocastico e, persino, nel valutare strategie nel gioco d’azzardo o nel mercato azionario. Una peculiarità dell’informatica è che le questioni concernenti processi elementari stimolano e indirizzano approfondimenti su concetti unificanti processi più complessi.
Nell’informatica quantistica le risorse fisiche includono ora stati di sovrapposizione, i processi possono chiamare in causa misteriosi legami quantistici (correlazione non locale) fra oggetti lontani. Nel contempo i criteri di successo diventano più evanescenti rispetto al caso classico, perché per estrarre il risultato di un compito quantistico di elaborazione d’informazione dobbiamo condurre misurazioni sul sistema e questa procedura inevitabilmente lo modifica distruggendo gli stati di sovrapposizione.
L’informazione quantistica generalizza le risorse fondamentali dell’informatica classica, passando dal bit al qubit, o bit quantistico. Proprio come i bit derivano dai principi della fisica classica, i qubit si originano da quelli della meccanica quantistica: i primi possono essere rappresentati da regioni magnetiche su dischi o tensioni elettriche in seno a un circuito, i secondi dallo spin di un elettrone o dallo stato di polarizzazione di un fotone.
Però, mentre un bit è descritto solamente da due stati, 0 o 1, acceso o spento, true (vero) o false (falso), un qubit è descritto dalle infinite sovrapposizioni quantistiche degli stati 0 e 1. Essi corrispondono a punti sulla superficie di una sfera, con lo 0 e l’1 posti rispettivamente nei due poli: il continuo di stati fra questi due estremi è alla base di molte proprietà dell’informatica quantistica. Un qubit sembra possa contenere una quantità infinita d’informazione, perché le sue coordinate teoricamente possono codificare una sequenza infinita di cifre. Ma così non è: l’informazione in un qubit deve essere estratta tramite una misurazione e questo processo, come ho precisato poco fa, distrugge gli stati di sovrapposizione presentando come risultato l’ordinario bit classico: 0 oppure 1, la probabilità di ciascun risultato dipendendo dalla “latitudine” del qubit. Questo risultato venne dimostrato per la prima volta dal matematico russo Aleksandr Holevo: è come se il qubit contenesse informazioni nascoste che possiamo manipolare, ma alle quali non possiamo accedere.
I singoli qubit sono risorse fisiche indubbiamente interessanti, ma i comportamenti più affascinanti si possono “ammirare” quando ne interagiscono molti, come nel caso della correlazione non locale.
Schroedinger era così impressionato dalla correlazione che la elevò al rango di vero e unico tratto distintivo della nuova fisica. I componenti di un gruppo di oggetti correlati non possiedono stati quantici propri, solo il gruppo nel suo insieme ha uno stato definito. Questo fenomeno è ancora più peculiare della sovrapposizione di stati di una singola particella; essa, infatti, ha uno stato quantico definito, anche se dovuto alla sovrapposizione di diversi stati classici.
Gli oggetti correlati si comportano come se fossero collegati l’uno all’altro indipendentemente dalla distanza che li separa. Qualsiasi interazione con un oggetto, una misurazione per esempio, si ripercuote simultaneamente su tutto ciò che gli è correlato. Bisogna però non cadere nell’errore di ritenere la correlazione un escamotage per inviare segnali superluminali, violando la relatività speciale, perché la natura probabilistica della meccanica quantistica impedisce siffatti tentativi.
Network quantistici
All’inizio degli anni novanta del secolo scorso, lo spunto che la correlazione ricadesse al di fuori della fisica classica spinse alcuni ricercatori a domandarsi se non si potesse usare come principale strumento per elaborare informazione molto più rapidamente, in modo più sicuro e scevra di errori rispetto agli standard classici di allora. La risposta non tardò ad arrivare e fu affermativa. Nel 1991 iniziò il fisico polacco, naturalizzato inglese, Artur Ekert che mostrò come utilizzare la correlazione non locale per distribuire chiavi crittografiche non violabili. Nel 1992 i fisici americani Charles Henry Bennett e Stephen Wiesner dimostrarono che la correlazione può facilitare il trasferimento d’informazioni classiche da un luogo all’altro. Infatti, nel 1993, un altro gruppo internazionale di ricerca spiegò come teletrasportare, con la correlazione, uno stato quantico da un luogo a un altro. Quindi la parola d’ordine, in questo caso, è accorciare o, meglio ancora, annullare le distanze.
Così come i singoli qubit possono essere rappresentati da molti oggetti fisici differenti, spin elettronici o nucleari, stati di polarizzazione dei fotoni, anche la correlazione ha proprietà indipendenti dalla sua natura fisica. Adoperare un sistema fisico o un altro può essere più conveniente all’atto pratico, ma non ha alcuna importanza dal punto di vista concettuale: si può realizzare la crittografia quantistica con coppie di fotoni correlati, con coppie di elettroni o nuclei correlati e, persino, con fotoni ed elettroni correlati l’uno con l’altro. In linea di principio, se possedessi dei dadi correlati, allo stesso modo delle particelle quantistiche, potrei puntare sempre sulla doppia uscita e vincere la posta in gioco, anche se li lanciassi singolarmente su pianeti diversi o galassie lontane anni-luce e in istanti differenti.
L’indipendenza della rappresentazione mette in luce una stimolante analogia tra correlazione ed energia. Quest’ultima obbedisce ai principi della termodinamica indipendentemente dal fatto che si tratti di energia chimica, nucleare, elettrica o di qualsiasi altra forma. È possibile, perciò, sviluppare una teoria generale della correlazione su linee simili ai principi della termodinamica?
Questa speranza fu alimentata nella seconda metà degli anni novanta, quando si dimostrò come forme diverse di correlazione fossero qualitativamente equipollenti: la correlazione di uno stato può essere trasferita ad un altro, in modo simile all’energia elettrica che fluisce da un caricabatterie a una batteria. Studiando queste relazioni, alcuni ricercatori hanno introdotto strumenti matematici per misurare quantitativamente la correlazione.
La strategia migliore è analoga alla misurazione di una massa con una bilancia. La massa di un oggetto è definita dalla quantità di copie di una massa standard, presa come unità di misura, che occorre per equilibrarla su una bilancia. In corrispondenza l’informatica quantistica fa uso di una “bilancia di correlazione” teorica per confrontare la correlazione tra due differenti stati quantici: la quantità di correlazione in uno stato è definita dal numero di copie di una certa unità standard di correlazione necessario per bilanciarla.
Se due qubit sono correlati, abbiamo visto che non possiedono più stati quantici propri. È invece definita una relazione tra qubit; per esempio, in un tipo di coppia correlata, i qubit danno risultati opposti quando sono misurati. Se uno dà 0, l’altro restituisce 1, e viceversa. Una coppia totalmente correlata si dice che possiede un e-bit di correlazione. Quindi le coppie correlate in modo incompleto possiedono meno di un e-bit. Ora immaginiamo che la mia amica Genoveffa ed io condividiamo due coppie parzialmente correlate; possiamo tentare di “distillare” la correlazione in una singola coppia. Se otteniamo una coppia totalmente correlata, allora possiamo essere sicuri che originariamente le nostre coppie possedevano, sommato, almeno un e-bit di correlazione. Usando la distillazione, e il processo inverso, la diluizione della correlazione, si può quindi costruire una bilancia virtuale per “pesare” la correlazione di vari stati quantici in rapporto all’e-bit standard.
A questo punto facciamo una breve digressione sul teletrasporto quantistico. Se Genoveffa ed io condividiamo un e-bit, cioè siamo nella condizione di correlazione massimale, possiamo teletrasportare un qubit. L’e-bit condiviso sarà “consumato”, bruciato, nel senso che non lo condivideremo più dopo il teletrasporto. Se io teletrasporto a Genoveffa un solo componente di una coppia correlata, la correlazione di quella particella con il suo partner originario viene trasferita alla particella della mia amica. Visivamente, se correlazione significa stato legato da un immaginario elastico quantistico, dopo il teletrasporto di uno dei due componenti, l’elastico della particella di Genoveffa non legherà più il qubit condiviso in precedenza con me, ma il componente spaiato, acquisendo in questo modo tutte le informazioni concernenti lo stato quantico della particella teletrasportata: in definitiva ciò che si sposta dalla parte di Genoveffa è l’informazione quantistica e non materialmente la particella: la sua particella assume lo stato quantico teletrasportato. Per esempio se lo stato quantico delle particelle in gioco è lo spin e teletrasporto una particella con spin “su”, la particella della mia amica, originariamente con spin “giù”, avrà, dopo il teletrasporto, spin “su”.
Un’ultima applicazione, la correzione quantistica degli errori, fornisce quella che finora è la migliore prova dell’utilità dell’informatica quantistica come strumento per lo studio della realtà oggettiva. Gli stati quantici sono estremamente delicati e vengono facilmente distrutti da interazioni sporadiche o dal rumore, cosicché i metodi per combattere questi disturbi sono essenziali.
Il calcolo e le comunicazioni classiche hanno un variegato repertorio di codici di correzione degli errori che proteggono le informazioni dal degrado causato dal rumore. Ma come si fa ad elaborare codici per la correzione quantistica degli errori dal momento che la meccanica quantistica proibisce di conoscere con certezza lo stato di un oggetto? È lo stesso ostacolo che si presenta quando vogliamo estrarre da un qubit più di un bit e che ci impedisce di farlo. Il codice correttivo classico, che prevede di sostituire un bit con una stringa di tre bit (0 = 000 e 1 = 111), fallisce miseramente, perché non possiamo esaminare ogni copia di un qubit e determinare quella da scartare senza rovinare le altre. Peggio ancora, creare copie identiche non è come bere un bicchiere d’acqua: la meccanica quantistica proibisce la clonazione di qubit sconosciuti, risultato noto come teorema di no-cloning.
Deprimente situazione per gli scienziati impegnati nell’assetto della computazione quantistica, finché le idee geniali, elaborate dal matematico americano Peter Williston Shor e del fisico inglese Andrew Martin Steane, non indicarono come effettuare la correzione quantistica degli errori senza conoscere anticipatamente gli stati dei qubit e senza doverli clonare. Come accade con il codice classico delle triplette, ogni valore è rappresentato da un set di qubit. Questi vengono fatti passare attraverso un circuito (l’analogo quantistico delle porte logiche) che corregge l’errore presente in uno qualunque dei qubit senza effettivamente “leggere” i singoli stati. È come se si facesse transitare la tripletta “010”, rappresentazione errata del qubit 0, attraverso un circuito in grado di riconoscere che il qubit centrale è differente e di invertirlo, il tutto senza determinare l’identità di ciascuno dei tre qubit.
I codici per la correzione quantistica degli errori sono un trionfo dell’informatica quantistica. La correzione quantistica degli errori, verificata sperimentalmente presso i Los Alamos National Laboratory, all’IBM e all’MIT, hanno ispirato nuove idee come quella di limitare il rumore quantistico degli orologi atomici senza intervento umano, ipotizzando un’intrinseca capacità di recupero, da parte di questi sistemi, contro la decoerenza.
Quindi niente saga di Star Trek o agenti con licenza di uccidere, ma promettenti sviluppi che ci amplieranno l’orizzonte sulle capacità di elaborazione delle informazioni del nostro universo.

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