Escher e i giochi di costruzione |
Da circa quattro secoli a oggi,
in conseguenza della forte scossa alla posizione centrale della Terra e
dell'uomo nell'universo, provocata prima dalla scoperta del moto del nostro
pianeta intorno al sole, e poi da quelle successive, che relegavano, a loro
volta questa stella in posizione periferica rispetto al centro della Galassia,
e collocavano quest'ultima, quale membro non particolarmente significativo, nel
moto d'insieme di espansione di tutte le galassie nel cosmo, si era sempre più
affermato, come assioma indiscusso, il cosiddetto principio copernicano,
secondo il quale la posizione dell'osservatore terrestre non poteva e non
doveva risultare privilegiata in alcun senso. Codesto dogma veniva ad assumere
la sua forma più pregnante nella teoria cosmologica dello stato
stazionario, in voga intorno al 1950, secondo la quale non solo
qualsiasi osservatore non poteva pretendere a una posizione particolare nello
spazio, ma così pure nel tempo, risultando inimmaginabile, in questo quadro
teorico, un qualsivoglia riferimento cronologico preferenziale.
Ora, all'alba degli anni settanta
del secolo scorso, questo estremo copernicanesimo è stato posto in dubbio,
dapprima dal fisico americano Robert Dicke, in quanto appare
insostenibile considerare l'osservatore come assolutamente estraneo a quanto
osserva: poiché, con il solo fatto di osservare, egli viene inserito nel cosmo,
e può esercitare la sua funzione solamente se posto in condizioni adatte allo
sviluppo della vita.
L'avvio a questo genere di
considerazioni è avvenuto nel modo seguente. È ben noto come una gran parte
delle leggi della fisica, macro e microscopica, dipenda, da un lato, da un
certo numero di costanti universali: velocità della luce c,
costante di gravitazione G, costante di Planck h, carica e massa
dell'elettrone, massa del protone, e così via, tutte dotate di un valore
accuratamente misurato e ben definito; d'altronde, per diverse di esse, da un
certo numero di parametri che appaiono costanti nella nostra epoca, ma che in
un lungo intervallo di tempo sono da pensarsi variabili: tra questi, la costante
di Hubble, nella legge dell'espansione cosmica, il cui inverso è
dell'ordine di grandezza della vita dell'universo, e, nello stesso ordine
d'idee, le dimensioni stesse del cosmo, e in particolare l'età del Sole, quella
della Terra e via dicendo. In linea molto generale e del tutto teorica, le
leggi della fisica rimarrebbero qualitativamente le stesse qualora tali
costanti fossero cambiate.
Però furono notate, fra alcune di
queste costanti, relazioni numeriche molto semplici, come la costante di
struttura fine, che mette in relazione note costanti universali e che
vale 1/137, le quali hanno dato luogo a speculazioni intese a giustificare
questi particolari rapporti fra esse. In seguito a un primo lavoro del fisico
australiano Brandon Carter, iniziò a prevalere l'idea che tali
relazioni fossero invece una conseguenza del cosiddetto principio
antropico, secondo il quale le costanti fisiche possono avere solo i valori
che hanno, o valori che da questi differirebbero di molto poco, perché, in caso
contrario, l'universo non si sarebbe prestato a generare gli essere umani che
stanno compiendo le osservazioni, e la cui esistenza è indispensabile affinché
qualcosa dell'universo venga di fatto conosciuto dal proprio interno. Del resto
se si calcola la probabilità che le 19 costanti universali siano così ben
sintonizzate da produrre questo universo, viene fuori che essa vale solo uno su
10 elevato alla 229, cioè un numero incredibilmente piccolo. Si direbbe quindi,
secondo i sostenitori di questo principio, che il nostro cosmo sia
"antropico", confezionato a misura d'uomo.
Questa idea generale, espressa
inizialmente da Carter, si può formulare secondo due diverse sfumature
d'intensità. Nella sua prima forma attenuata, detta principio antropico
debole, viene asserito che la posizione dell'osservatore nell'universo
non può essere qualsiasi, nei riguardi sia dello spazio sia del tempo, perché
la scelta delle sue coordinate spazio-temporali nel cosmo deve essere tale da
rendere possibile la vita, laddove e quando egli appare. Questa ipotesi pone a
priori un forte condizionamento sulle costanti di seconda specie,
relative ai connotati dell'universo. Per esempio, non sarebbe stato possibile
che i cosmologi avessero scoperto che l'età dell'universo,
inverso della costante di Hubble, fosse molto più breve o molto più lunga di
quella effettivamente misurata, la quale è dell'ordine di grandezza dei tempi
caratteristici per l'evoluzione delle stelle di massa media sulla sequenza
principale del diagramma di Hertzsprung-Russell. In effetti, la
possibilità dell'esistenza di pianeti come il nostro, e quindi di esseri
viventi, dipende dalla formazione degli elementi pesanti, quali
il carbonio e l'ossigeno, il calcio e il ferro, che sono fabbricati dalle
stelle nel corso della loro evoluzione: in una durata cosmica troppo breve, gli
elementi pesanti non avrebbero avuto il tempo di formarsi in quantità
sufficiente; altresì, in una durata troppo lunga, le stelle sarebbero in media
troppo invecchiate per svolgere la parte che spetta al Sole nel regolare la
vita sulla Terra.
Proponendo un altro esempio
concettuale, supponiamo che la gravità fosse molto più intensa:
in tal caso, a parità di tutto il resto, le stelle sarebbero più piccole che
nel nostro universo e brucerebbero più rapidamente il loro combustibile
nucleare per opporsi al collasso gravitazionale. Se la gravità
avesse un'intensità abbastanza grande, le stelle esaurirebbero la loro sorgente
di energia nucleare prima che forme di vita complessa, come gli esseri umani,
avessero il tempo di evolversi.
In questa prospettiva, un
universo infinito potrebbe essere suddiviso in "domini", soggetti a
leggi fisiche diverse. Questi domini potrebbero essere separati fra loro
spazialmente, fuori dalla portata degli strumenti osservativi terrestri, o
temporalmente: in un certo qual modo potrebbero essere forse anche
"precedenti" al Big Bang. Oppure potrebbero esistere in
un qualche superspazio pluridimensionale, collegato al nostro
cosmo da cunicoli spazio-temporali. Forme di vita simili alla
nostra esisterebbero solo in domini in cui le stelle avessero una vita
abbastanza lunga da permettere l'evoluzione di organismi complessi, e dove
anche le condizioni fossero appropriate.
Vi è una seconda formulazione,
molto più drastica, nota come principio antropico forte, quando
si asserisce che non solo le costanti di seconda specie, ma pure quelle di prima
specie, che i fisici considerano costanti fisiche in senso assoluto,
come la velocità della luce o la costante di Planck, non avrebbero potuto
essere molto diverse da quanto viene sperimentalmente misurato.
La versione forte del principio
antropico suggerisce che l'universo non abbia avuto scelta su come emergere dal
Big Bang, costruito appunto, come ho scritto prima, su misura per noi. Alcuni
fisici, e in particolare l'americano John Archibald Wheeler,
hanno collegato quest'asserzione con idee della teoria quantistica,
secondo le quali nulla sarebbe reale fino a quando non viene osservato: in
altri termini, la realtà fisica del nostro universo dipenderebbe dalla presenza
di osservatori intelligenti, consapevoli della sua esistenza; sarebbe solo
l'osservazione ad assicurare che le interazioni fondamentali e le
costanti di natura abbiano i valori che conosciamo.
Altri vedono, nelle
"coincidenze" che permettono l'esistenza della vita nell'universo,
una prova che esso sia opera di un "architetto intelligente". A
questo livello, la controversia sulla cosmologia antropica è una
variazione sul vecchio argomento del disegno intelligente, usato
per "dimostrare" l'esistenza di Dio: secondo questo argomento, che ha
avuto il suo paladino più influente nel teologo inglese William Paley,
gli organismi viventi sono troppo complicati per poter avere avuto origine per
caso. Secondo l'argomentazione contraria, rappresentata poco dopo dal
naturalista inglese Charles Darwin, la complessità degli
organismi viventi sarebbe il prodotto dell'evoluzione per selezione
naturale, la quale ha adattato gli organismi al loro ambiente, senza
alcun bisogno della mano di Dio.
Fatto molto interessante, questo
argomento contrario è stato ora esteso all'ambito della cosmologia, grazie
anche all'opera del fisico-matematico americano Lee Smolin.
Questi ha sostenuto che, quando un universo neonato si stacca dal
proprio genitore attraverso un buco nero, le leggi della fisica
nel "nuovo" universo possono essere leggermente diverse da quelle
vigenti nel "vecchio" universo. Queste differenze nelle leggi della
fisica potrebbero fornire la materia prima a una selezione naturale al livello
degli universi stessi, cosicché gli universi più efficienti nella produzione di
buchi neri, in grado quindi di produrre altri universi simili a se stessi,
avrebbero la meglio in una specie di lotta cosmologica per la
conquista dello spazio.
Secondo quest'argomentazione
saranno avvantaggiate dal processo di selezione le leggi della
fisica che favoriscono la conversione della materia in molti buchi neri. Smolin
sostiene che il nostro universo sia con molta probabilità un prodotto finale di
un tale processo evoluzionistico, e che le leggi della fisica,
che ci sembrano così ben adattate a permettere la nostra esistenza, siano in
realtà sintonizzate in modo fine alla produzione di buchi neri e di un maggior
numero di universi neonati.
La nostra esistenza potrebbe
essere quindi una conseguenza parassitica del fatto che tali
leggi permettano casualmente l'esistenza del carbonio e degli altri elementi su
cui si fonda la vita come la conosciamo.
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